lunedì 4 maggio 2009

Per chi volesse saperne di più su: LA BREVE FAVOLOSA VITA DI OSCAR WAO di J. DIAZ


Della vita di Oscar sappiamo subito, ancora prima di cominciare a leggere, che sarà breve e favolosa. Ebbene, con questi due aggettivi, tutt’altro che casuali, come invece potrebbe sembrare ad una prima impressione, Junot Dìaz – che al suo primo romanzo è già premio Pulitzer 2008 – suggerisce fin dal titolo due aspetti fondamentali della storia che si appresta a raccontare.

Ci avverte innanzitutto che la vita di Oscar (Wao è storpiatura ironica di Wilde, soprannome che il ragazzo si è “guadagnato” a scuola in quanto appassionato lettore e scrittore) è stata BREVE. Un senso di tragedia, insomma, che incombe e che continuerà a stridere dopo ogni pagina contro lo stile divertente e leggero, rutilante, spesso sboccato del narratore – un contrasto che è come un motore per la curiosità del lettore, che una volta aperto il libro, vorrà arrivare fino in fondo per vedere come va a finire.

Secondo aspetto: la vita di Oscar è stata FAVOLOSA. Mitica, quindi, quasi che Dìaz avesse la pretesa di elevare il suo normale adolescente disadattato al rango di eroe. E a pensarci bene, in un certo senso, la storia di Oscar, obeso ragazzo newyorchese, dominicano di origini ma assolutamente privo del talento da play-boy di tutti i suoi connazionali, sfigato appassionato di fantascienza e fervido scrittore, è proprio la storia di un’ascesa, di un progressivo distacco dalle umane cose da parte del protagonista, un viaggio alle Origini che diventa viaggio dentro se stessi, al confine di se stessi, mossi dalla forza dell’amore, un’amore puro e carnale, da sempre cercato, bramato, sofferto…e solo alla fine conosciuto.

A Dìaz piace narrare, come ai padri della letteratura ispano-americana, suo riferimento obbligato. E gli piace giocare con diversi elementi, metterli insieme, mescolarli per irretire il lettore e tenerlo agganciato alla storia. Così la lingua mescola slang anglo-americano e ispanico, continuamente intercalati da similitudini, espressioni, citazioni proprie della tradizione fumettistico/letteraria fantasy e fantascientifica; lo stile sale e scende di registro, dal comico capitombola al tragico, da sboccato si fa, nel giro di poche righe, quasi epico; la realtà storica della barbarie perpetrata impunemente dal regime del dittatore dominicano Trujillo - qui rigorosamente documentata, seppure senza mai rinunciare a un irresistibile humour nero – si intreccia e si sovrappone con le storie dei vari personaggi, con la favola esotica, con la magia e le tradizioni tanto legate al soprannaturale dei paesi caraibici; e la dimensione spazio/temporale corre dal presente al passato, dagli Stati Uniti alla Repubblica Dominicana e viceversa, in un continuo gioco di rimandi e ammiccamenti al lettore, che Dìaz farà arrivare prima di Oscar in certi luoghi e a certe informazioni, ma soltanto per attenderlo, per aspettare che lui, Oscar Wao, col suo passaggio, restituisca all’intera vicenda, alla sua vita e a quella dei nonni e dei genitori, al presente e al passato, agli Stati uniti e alla Repubblica Dominicana, un Senso Ultimo, come un unico destino, di un unico mondo racchiuso, con grande bravura dello scrittore, in un unico libro.

Il risultato è un libro che, semplicemente, si legge tutto d’un fiato.

venerdì 10 aprile 2009

Per chi volesse saperne di più su: LA STRADA di C.MCCARTHY

Non vorrei mai che capitasse, ma a volte mi capita. Di interrompere un romanzo per due, tre, quattro giorni consecutivi – la letteratura, ahimè, non è l’unica realtà in cui vivo, anche se una delle poche in cui vivrei tutta la vita. E quando capita, trovo molto difficile rientrare dentro la storia…devo tornare indietro, riprendere qualche passaggio, se non rileggere intere pagine. E non è sempre detto che ci riesca.

LA STRADA, di Cormac McCarthy, premio pulitzer 2007, tra le altre cose, ha pure questo di straordinario: una volta entrato dentro il romanzo, lo puoi pure mollare per settimane; quando lo riaprirai, ti basterà leggere soltanto poche righe di qualsiasi pagina per rientrarci subito, istantaneamente.

Questo, credo, per due motivi che sono altrettanti punti di forza del romanzo: uno riguarda la storia, l’altro il linguaggio.

La storia. Scarna, semplice, essenziale – quasi le ossa di una storia. In un mondo freddo, arido, grigio, cinereo, asfittico – un mondo scampato a qualche non meglio precisata catastrofe che ha rigettato l’umanità sopravvissuta nell’homo homini lupus dello stato di natura – un padre e un figlioletto, diciamo di dieci anni, vanno verso sud, come uccelli migratori, verso il mare e un clima più caldo, cercando, giorno dopo giorno, di allungare la propria vita con i residui di cibo che trovano sulla strada ed evitando le minacce costituite dai propri simili male intenzionati.

Tutta qui, la storia. Così essenziale che per una buona parte il libro non è altro che una specie di manuale di sopravvivenza nel mondo ostile dove i due sventurati si trovano a lottare per la vita: come accendere un fuoco, costruirsi un riparo dalla pioggia, trovare qualcosa da mangiare, nascondersi in un posto sicuro. Descrizioni secche, asciutte di questa o quella azione, in un linguaggio che rasenta quello scientifico. Poi, di tanto in tanto, un “evento” – l’incontro con altri esseri umani, un pericolo nella notte, la scoperta di una villa abbandonata, di una barca vicina alla costa, di una dispensa nascosta sotto una botola o il ricordo di un amore.

Che noia, direte voi.

E l’ho detto anch’io, leggendo le prime pagine. Ma poi, improvvisamente, pagina dopo pagina, accade che quel mondo, quel freddo, quella polvere ti entrano dentro e non ti lasciano più – e basta semplicemente riaprire il libro, leggere una o due righe qualsiasi per ritrovarne intatta e vivida la sensazione fisica. E accade che quei pochi eventi banali diventino anche per te, come per i due protagonisti, vitali, fondamentali, letteralmente questione di vita e di morte, qualcosa che balza ancora più violento e indimenticabile alla tua attenzione di lettore proprio perché viene fuori dal nulla che McCarthy ha scelto come ambientazione.

Il secondo motivo, strettamente collegato al primo riguarda, dicevo, il linguaggio. Quasi un linguaggio analogico, che somiglia in maniera straordinaria, anche nel suono, alla storia che racconta – e anche in traduzione. Una prosa precisa come la lama di una gogna, che descrive con esattezza e meticolosità oggetti, azioni, luoghi. E, anche, una prosa visionaria, che racconta senza alcuna enfasi un incubo apocalittico di mondo e, nei dialoghi altrettanto scarni ed essenziali tra padre e bambino, persino poetica. Senex e Puer, la disillusione e la speranza, il cinico e crudele realismo e la bontà idealistica. E’ sorprendente la profondità che, pur nella loro laconicità, questi dialoghi riescono a raggiungere. Parole che sono galassie, profondità abissali di Senso. E profonde emozioni per il lettore.

McCarthy crea una specie di mondo beckettiano – dove, dice, il linguaggio sembra aver perso i propri referenti nella realtà – ma lo fa attraverso una lingua chiara, senza sbavature e senza alcuna ambiguità. Una scrittura necessaria. Ogni parola sembra stare esattamente dove dovrebbe essere, quella e non un’altra. E’ un Beckett che corre in direzione neo-realista. La sua scrittura è fisica, le parole sono carne e sangue, ti fanno toccare gli oggetti, sentire i morsi della fame, il dolore fisico provocato da una freccia che trafigge una gamba, il sapore e l’odore dell’aria salata della costa.

E tu, lettore, in questo futuro vicino e distante, in questo nulla dove tutto è cenere, dove proprio non te lo aspetti, hai il privilegio di assistere, con un realismo da far male, alla rappresentazione dei sentimenti umani più autentici, un distillato dell’intera gamma dei sentimenti, i Sentimenti, con l’iniziale maiuscola. Odio, Amore, Pietà, Bontà, Paura, Disperazione, Felicità.

LA STRADA non è un libro facile, è duro e spietato, ma è come un duro dal cuore tenero…la cosa difficile è soltanto entrarci in relazione. Una volta creato il legame, una volta entrati nella storia, come ho detto, non si esce più e il finale, che è già storia della letteratura, continuerà a echeggiare nella vostra testa anche molto tempo dopo che avrete chiuso il libro.

E allora sarete contenti di averlo letto.